Un tempo il rifugio e il rifugista erano dei capisaldi. La struttura un luogo sicuro dove approdare, il gestore un uomo, un alpinista, una guida cui fare affidamento. Oggi è cambiato il significato di rifugio e il ruolo di rifugista?
Contributo di Vittorino Mason
“Il Rifugio del Club Alpino Italiano è la casa del Socio aperta a tutti i frequentatori della Montagna. Il Rifugio è un presidio di ospitalità in quota sobrio, essenziale e sostenibile, presidio culturale e del territorio, centro di attività divulgative, formative, educative e di apprendimento propedeutiche alla conoscenza e alla corretta frequentazione della Montagna. Non è un albergo ma un laboratorio del “fare montagna” che sa contenere insieme etica dell’alpinismo, socialità, accoglienza, alta performance in ambiente, turismo consapevole, rispetto e tutela del Paesaggio montano”, recita il Titolo 1 (Preambolo) del Regolamento strutture Ricettive del Club Alpino Italiano, ma è proprio così?
Molti di noi, frequentatori della montagna a vari livelli, forse si saranno resi conto che da rifugio a rifugio e da luogo a luogo, c’è molta differenza, sia di gestione che di ospitalità. Ci sono rifugi di serie A, dove ci si arriva in auto o con pochi passi, che sono sempre al completo, e altri di serie B situati in ambienti selvaggi che per raggiungerli ci vogliono tre, quattro ore di cammino. Rifugi dove l’alpinista o l’escursionista è visto come un pollo da spennare, altri dove l’umanità e le persone hanno ancora un valore, un significato.
Non è la stessa cosa gestire un rifugio privato o un rifugio del Cai. Rifugi dove il gestore in una stagione ricava molti soldi, altri dove il rifugista se ne torna a casa con un misero guadagno, ma magari soddisfatto lo stesso del tempo che ha vissuto in montagna. Rifugi dove ti senti solo un turista, uno qualsiasi, altri in cui vieni accolto da un sorriso, da una parola, dove ti senti come a casa, in una famiglia; e questo fa una grande differenza.
Arrivare in rifugio per trascorrervi una notte prima di un’ascesa, una scalata o un’altra tappa di un’Alta Via, è sempre un momento importante: ci si ristora, si recuperano le fatiche, si chiede informazioni sul percorso e magari si fa parola e comunione con altri di passaggio. Chi ci apre la porta e ci accoglie, il rifugista, ha un ruolo importante. Uno non si aspetta chi sa che cosa, ma un sorriso e una parola benevola sì. Invece, molto spesso, proprio laddove le frequentazioni sono numerose, questa figura non ha neppure il tempo di un saluto, di uno sguardo e non è in grado di darti un’informazione sui percorsi delle montagne che stanno attorno al rifugio. Quando succede ci si domanda se abbiamo sbagliato noi qualcosa, oppure se quel Titolo 1 del regolamento dei rifugi non conti nulla, solo inchiostro su una carta che nessuno legge.
Un tempo il rifugio e il rifugista erano dei capisaldi. La struttura un luogo sicuro dove approdare, il gestore un uomo, un alpinista, una guida cui fare affidamento. Il rifugio era la casa degli alpinisti che si ritrovavano, chiacchieravano e si scambiavano informazioni attorno a un tavolo, davanti a un fuoco e a un bicchiere di vino, il gestore uno che conosceva profondamente le montagne della zona, quasi sempre un provetto alpinista e in caso di bisogno il primo a correre in soccorso.
Oggi tutto è cambiato e anche l’idea di rifugio come casa ospitale, se non in pochi casi, ha svilito l’immaginario di chi ancora credeva nei valori e gli ideali del Cai. Molti rifugi sono stati trasformati in veri e propri hotel di montagna dove puoi chiedere doccia, sauna, pizza, gelato, lecca-lecca, sdraio, camera privata e chissà quale altro confort a discapito della sobrietà e del significato di vivere un’esperienza in rifugio semplice, ma profonda, dove il valore più importante è essere vicino e dentro la montagna.
In alcuni casi gli alpinisti vengono visti come degli sporchi e trasandati vagabondi, mentre i turisti della montagna che vi giungono a flotte, come bella gente da coccolare perché spendono. Ma non dovrebbe essere così un rifugio di montagna, specie se di proprietà del Cai. Allora non c’è da gongolare quando si sbandiera i numeri degli iscritti che oggi superano i 330.000, perché poi, se si va ben a guardare, più che escursionisti e alpinisti, questi sono turisti che trasportano in montagna le esigenze della vita in città. Non mi sorprenderebbe se un giorno in rifugio vedessi nel menù Coca-cola e cheeseburger, per esempio.
Il rifugio alpino dovrebbe essere una struttura semplice e sobria dove trovare un giaciglio per la notte, un pasto caldo e la cordialità di un gestore e i suoi collaboratori. Tutto il resto è un di più perché le comodità e le abitudini della quotidianità, per una volta, possiamo lasciarle a casa in cambio di nuovi orizzonti, avventure da vivere ed emozioni da sperimentare rigenerando corpo e spirito. Per questo, stravolgere lo scopo per cui sono sorti i rifugi, trasformandoli in luoghi anonimi dove i fruitori convergono come in un hotel o ristorante, è oltraggioso allo Statuto del Cai e irrispettoso verso coloro che ancora lo intendono come la casa degli alpinisti.
Allora mi domando se dobbiamo accettare questo cambiamento, direi stravolgimento, del ruolo del rifugio in montagna, determinato anche dalle nuove tendenze, oppure se si può controvertire questa sorta di deriva e tornare sui propri passi ridando valore e il giusto ruolo che il rifugio e il rifugista devono ricoprire. Forse la nostra è solo nostalgia, ma è un bel sentimento perché rimanda a figure altre, a uomini, alpinisti e gestori di rifugi, come Bruno Detassis, che seppero incorporare il valore di cui sopra.
Naturalmente questo è il punto di vista di uno che passa per i rifugi e ogni tanto si ferma per una notte. Ma com’è vivere per tre, quattro mesi all’anno in un rifugio? È davvero cambiato il significato di rifugio e il ruolo di rifugista?
Franco Nicolini (alpinista, guida alpina), dal 2011 gestore con la sua famiglia del Rifugio Tosa Pedrotti nel Gruppo Dolomiti di Brenta, è forse la persona che più di altri può aiutarci a trovare delle risposte e a capire se c’è un altro modo di essere custodi di rifugio.
L’intervista a Franco Nicolini
Caro Franco, com’è nata l’idea di gestire un rifugio?
Nel 2011, appena tornato dalla Patagonia e in piena attività alpinistica, venni a sapere che la famiglia Domini, che assieme ad un’altra famiglia per sessant’anni aveva gestito il Rifugio Pedrotti, abdicava.
Considera che quel rifugio per me è sempre stato il riferimento del mio lavoro di guida alpina e della mia attività alpinistica e che inoltre mia moglie Sandra ci aveva lavorato per quindici anni. Insomma, una sorta di seconda casa. Ho parlato con lei e i miei due figli e assieme abbiamo deciso di partecipare al concorso di assegnazione per poi avere la gestione. Ed eccoci qui.
Come sono stati gli inizi?
Traumatici. Ci aspettavamo sì un lavoro convulso, con tante problematiche da risolvere in ogni momento e tante persone da soddisfare, ma non a quel punto. Ospitare dalle centoventi alle centocinquanta persone ogni giorno non è cosa facile a 2491 metri d’altitudine. Poi però abbiamo trovato la nostra dimensione, ci siamo organizzati, abbiamo preso le dovute misure e siamo diventati più bravi nel gestire le situazioni e i rapporti con gli avventori.
Fare il gestore di un rifugio è solo un lavoro come tanti altri per guadagnarsi da vivere?
No. Prima di tutto c’è l’amore incondizionato verso la montagna, questo luogo, il cuore del Brenta e ciò che rappresenta come elemento naturale e in secondo luogo la disponibilità e la predisposizione all’accoglienza, a tenere le porte aperte… Pensa che, quando io e la mia famiglia abbiamo deciso di salire quassù, la prima cosa alla quale abbiamo posto l’accento è stata di essere luogo di accoglienza, di aiuto e soccorso per alpinisti ed escursionisti. Abbiamo anche pensato come rifocillarli al meglio e di sostituire i letti in reti metalliche che risalivano alla Seconda Guerra Mondiale. Se non ami la montagna e non hai passione non puoi e non devi fare questo mestiere di custode. Noi abbiamo coniugato l’amore per un luogo bello al bisogno di guadagnarci da vivere.
Qual è la tua filosofia di rifugio?
Il rifugio è un presidio dove chi arriva dovrebbe trovare un posto caldo per riscaldarsi, un letto per dormire e un pasto. Il resto viene dopo. Io penso che per una volta, una notte, l’avventore possa e debba accettare di vivere in un luogo spartano e senza le comodità di casa; ad esempio, senza farsi la doccia. Ma noi non siamo solo un presidio, il nostro compito è anche di rispondere alle domande, consigliare itinerari, avvisare in caso di condizioni meteo avverse e nell’eventualità di incidenti ed emergenze, siamo sempre i primi a partire.
Se fosse per me assegnerei la gestione di un rifugio solo a gente di montagna: alpinisti, guide alpine, personale del Soccorso alpino, insomma a gente che la montagna la conosce, la vive e la pratica con passione competenza.
Burocrazia, leggi e regolamenti sono un ulteriore ostacolo nella gestione di un rifugio?
Sì, il primo vero ostacolo: hanno equiparato un rifugio a un albergo di montagna senza considerare la grande differenza: il primo si raggiunge solo camminando, l’altro, l’albergo, anche con dei mezzi motorizzati. La facilità di accesso, sia per i rifornimenti che per arrivarci, non è da poco! La seconda grande differenza è che in un rifugio se uno arriva a mezzanotte non posso lasciarlo fuori, mandarlo via, in un albergo invece sì. Poi considera che mesi prima di aprire un rifugio già dobbiamo pagare le bollette ed eseguire le varie iscrizioni: INPS, Internet, smaltimento rifiuti, dei reflui delle fognature, che devono essere portati a valle, e poi far fronte a tante altre incombenze, carte da compilare e obblighi da espletare. Tutto questo perché siamo equiparati a un albergo. Bisognerebbe che il Ministero del Turismo cambiasse la tipologia della struttura abitativa, cosa che si può benissimo fare, facilitando così il nostro lavoro. Pensa che ogni anno prima di aprire il Pedrotti, ho già sborsato ventimila euro. Mentalmente non è facile iniziare la stagione…
Gestire un rifugio significa lavorare solo tre, quattro mesi o impegna in altri momenti dell’anno?
Noi apriamo il 20 di giugno e chiudiamo i primi di ottobre, ma considera che subito dobbiamo espletare un sacco di obblighi burocratici, non ti dico le carte da compilare, e portiamo giù tutte le coperte e i 150 piumini per lavarli e sanificarli (con molti viaggi che impegnano per tre settimane). A novembre abbiamo già cinquanta prenotazioni e anche questo richiede tempo, e solo per le scorte alimentari e quelle energetiche (la nafta) già a marzo dobbiamo iniziare ad ordinare quanto serve. A maggio facciamo la manutenzione annuale della teleferica, poi cominciamo a salire in rifugio (cinque persone) per spalare la neve e riscaldare l’ambiente che è molto umido. Dobbiamo anche riparare tutte le macchine elettriche che rimangono in rifugio e ogni anno, durante l’inverno, vanno fuori uso. In pratica il nostro è un lavoro che ci impegna per otto, nove mesi all’anno.
Immagino che poi tu approfitti di quel lasso di tempo libero per fare qualche spedizione…
Sì, diciamo che la vita di rifugista mi ha un po’ precluso l’attività alpinistica estiva, ma mi sono rifatto con le spedizioni, i viaggi in Himalaya, nelle Ande o altre montagne in giro per il mondo. Ho salito vari ottomila e diverse montagne andine e nel 2019, in compagnia di quattro amici, sono riuscito a concatenare l’ascensione delle 16 montagne più alte del Sud America in quaranta giorni.
Il Rifugio Pedrotti si trova a 2491 metri di altitudine, come avvengono gli approvvigionamenti?
Grazie a una teleferica che già esisteva e che abbiamo potenziato. Con questa portiamo su tutto, ma lo sforzo rimane comunque notevole. Basta pensare che dal negozio di Molveno una cassa di verdura o di frutta viene caricata su un fuoristrada e portata al Rifugio Croz dell’Altissimo. Qui viene caricata sul carrello della teleferica per salire fino al rifugio. La teleferica per noi è il mezzo più ecologico e meno impattante per l’ambiente molto delicato come quello delle Dolomiti.
Quest’anno, dopo più di cent’anni, al Pedrotti sono iniziati i lavori di ristrutturazione…
Sì, dopo dieci anni di ripensamenti quest’anno la Sat ha deciso di partire con i lavori di ristrutturazione, che purtroppo sono iniziati ad agosto, tardi. Il rifugio abbisognava da tempo di un intervento, anche perché era stato costruito con sassi di Dolomia porosa che trattengono molto l’umidità espandendola all’interno della struttura. A lavoro ultimato il rifugio sarà ben isolato e più caldo, sarà arredato bene e con le luci a led, inoltre ci saranno meno posti letto, ma suddivisi solo in stanze da sei, quattro persone. Se tutto andrà bene ufficialmente il rifugio riaprirà nell’estate del 2026, ma per quanto riguarda la ristorazione è sempre stato aperto e speriamo di avere i permessi anche il prossimo anno. Pur rimettendoci dal punto di vista economico, noi non abbiamo mai voluto chiuderlo per essere presidio e punto di riferimento per tutti.
Con lo scioglimento dei ghiacciai, penso alla Vedretta Bassa del Brenta, l’approvvigionamento d’acqua sta diventando un problema?
Sì, perché a causa dello scioglimento dei ghiacciai e del permafrost la scarsità d’acqua è un problema conclamato. Ma sembra che nonostante questo non sia un problema che riguarda indistintamente tutti e molte persone rimangono indifferenti. Bisogna risparmiare uno dei beni più preziosi e non fare come quegli avventori che quando si lavano i denti in rifugio poi lasciano il rubinetto aperto. Per quanto riguarda il Pedrotti, quest’anno non abbiamo avuto scarsità d’acqua, ma siamo sempre pronti ad andarla a recuperare con dei tubi dalle vedrette. Comunque sia, con la ristrutturazione la Sat andrà ad installare anche una cisterna con la capacità di captare circa 90 metri cubi d’acqua che potrà fungere da scorta per ogni evenienza.
Rispetto al passato ormai da qualche anno è regola, se non obbligo, prenotare e pagare per tempo il pernotto in rifugio. Non trovi che la regola “Chi prima arriva, prima alloggia” sia discriminatoria?
No. Quando non c’era il telefono chi arrivava per primo alloggiava. Se poi il rifugio era pieno e all’ultimo momento arrivava qualcuno, un posto di emergenza glielo si trovava sempre. Poi si è cominciato a prenotare ma molte volte, anche senza avvisare, c’era chi cambiava idea e il danno era doppio: prima per il custode che rimaneva con posti vuoti e poi per gli escursionisti che, non trovando disponibilità, dovevano cambiare il loro programma. A causa di questi comportamenti siamo stati costretti a rendere obbligatoria e con caparra la prenotazione che, grazie all’avvento di internet, ha facilitato di molto il compito per noi e gli ospiti. Nel caso nostro, quando uno non sale perché piove o nevica, noi gli restituiamo la caparra.
Questa estate, passando per un rifugio, mi sono fermato a chiedere informazioni su una possibile via di salita ad una vicina cima dolomitica. Nessuno sapeva nulla di vie e percorsi. “Rivolgiti alle guide” mi è stato detto. Ti sembra giustificabile questa mancanza di conoscenze?
No. Inammissibile! Va contro le regole della gente di montagna. Il primo requisito che deve avere un custode è la conoscenza profonda del luogo in cui si trova il rifugio. Inoltre, deve sapere se un sentiero è percorribile o meno a causa di un crollo o una frana. Per questo, come ti dicevo, è importante che il gestore sia uno che di montagna se ne intenda, e molto.
Grazie alla quota in cui si trova e ai lunghi accessi, si può dire che il tuo rifugio in qualche modo selezioni gli ospiti?
Il rifugio è lontano da raggiungere sia da Molveno che da Madonna di Campiglio e a causa dei lunghi avvicinamenti dovrebbe fare una selezione naturale, ma in questi ultimi cinque anni ho visto un aumento della frequentazione di quella che io chiamo la terza categoria: quella dei turisti di montagna. Questi, soprattutto giovani, attratti dalla superficialità dei social, ma ignari dello spirito del vivere in montagna, s’incamminano sui sentieri senza alcuna preparazione e con l’abbigliamento inadeguato. Magari partono alla volta di un rifugio solo perché l’APT ha pubblicizzato la visione dell’alba. Quando arrivano sono molto spaesati perché pensavano di trovare un albergo. Chiedono una Spa, la camera privata, la doccia calda e tavoli privati. Delusi loro si arrabbiano, ma quelli che chiedono sono tutti servizi e cose che non possiamo e vogliamo offrire.
Pensi che ci sia il modo per educare questi turisti al rispetto e al giusto approccio alla montagna?
Credo sia difficile per tanti motivi. Pensa che la scorsa settimana (ottobre 2024) è sceso mezzo metro di neve e qui in rifugio siamo stati sempre sottozero. Alle due di notte ci ha chiamati la centrale del 118 dicendoci che non lontano dal Pedrotti c’era un disperso sotto la neve. Noi siamo partiti e con grande dispendio di energia siamo riusciti a recuperarlo e portarlo in salvo. Una volta rinvenuto, era un israeliano, abbiamo cercato di spiegarli che con la neve caduta non c’erano le condizioni per andare in montagna in sicurezza, ma questo, quasi indifferente di quanto aveva rischiato e senza conoscenza della montagna, aveva camminato fino allo sfinimento mettendo a repentaglio la propria vita. Questo è solo per dirti cosa vuol dire approcciare la montagna senza conoscenza e preparazione. Se consideriamo che ogni giorno le montagne, una via, un sentiero, una parete, può cambiare aspetto, perché la montagna è sempre in movimento e trasformazione, diventano fondamentali le informazioni che un rifugista può dare, ma anche la preparazione che un escursionista deve avere. Poi il rischio e il pericolo, oggettivo e soggettivo, non possiamo mai eliminarlo del tutto, ma a causa della sottovalutazione avremo sempre più incidenti e morti tra quelli che io definisco turisti della montagna.
Quali sono le richieste più frequenti?
Un locale caldo e un posto dove asciugare gli indumenti; cose molto importanti per un escursionista che magari arriva in rifugio bagnato. Oltre a questo, molti chiedono se c’è la possibilità di farsi una doccia calda.
E la più insolita?
Un elicottero! Quattro giovani benestanti, credo di Milano, che giunti qui sfiniti volevano scendere a valle senza più far fatica.
Qual è la cosa che di un avventore ti dà più fastidio?
Quando mi chiedono qualcosa che non possiamo dare, ad esempio la doccia, ma non perché siamo negligenti, ma proprio perché non è possibile. Poi gli spieghi della penuria d’acqua, che è un bene primario, ma questi non lo capiscono e non riescono neppure a comprendere in che luogo si trovano.
Hai mai mandato via qualcuno perché si è posto in modo arrogante verso te o la struttura?
No. Noi siamo consapevoli che non possiamo mandare via nessuno. Il primo nostro imperativo è salvare vite umane, accogliere e ospitare la gente. Ma non nego che in tutti questi anni non ci siano state occasioni di forti discussioni e ogni volta io ho cercato di mediare dicendo all’altro di sopportarci a vicenda fin tanto non se ne sarebbe andato via il giorno dopo.
Sono i frequentatori che cambiano l’offerta ricettiva di un rifugio, oppure dipende solo dalla volontà del gestore di mantenere una linea?
No, credo che il gestore possa avere una sua importanza nel determinare l’offerta e la gestione di un rifugio. Poi la regola che il cliente ha sempre ragione vale solo giù in città. Qui c’è un regolamento stabilito dal Cai al quale tutti sono dovuti ad attenersi e che il gestore deve far rispettare.
A questo proposito voi fatto delle scelte che in qualche modo indirizzano o impongono una coesistenza rispettosa del luogo e degli altri ospiti?
Sì, ad esempio abbiamo deciso di togliere la Wi-Fi nell’orario di pranzo e cena, questo per permettere a tutti di non essere disturbati, ma soprattutto di fare casa comune seduti allo stesso tavolo. Molto spesso nascono delle amicizie e il giorno dopo addirittura delle cordate. Per noi è importante salvaguardare certi valori come il dialogo, la vita di comunità, la condivisione. Già la vita giù di sotto è tutta una frenesia, almeno qui che si riesca a staccare la spina e buttar via il cellulare per riappropriarsi delle nostre vite.
Quanto sono lunghe le giornate in cui piove e magari non sale nessuno?
In realtà quasi mai il rifugio è vuoto, ma anche quando c’è poca gente abbiamo sempre qualcosa da fare: pulizie, manutenzioni, inoltre, visto che qui a lavorare siamo in dodici, è l’occasione per dare una giornata di riposo a qualcuno. Considera che qui normalmente si lavora 18 ore al giorno.
Qual è il momento più impegnativo e faticoso della giornata?
Non ce n’è uno, stare qui è sempre impegnativo. Il rifugio è come una sorta di piccolo villaggio: bisogna produrre la corrente, portare l’acqua e persino l’immondizia deve essere trasportata a valle. Sono azioni scontate nella vita di tutti i giorni, ma a 2500 metri richiedono ingegno e organizzazione. Poi, tra un servizio al tavolo e l’altro, quando credi di avere un momento di relax, magari ti chiamano per andare a fare un intervento di soccorso.
E quello più bello?
Forse quando suona la sveglia e con il caffè tra le mani io e la mia famiglia usciamo a vedere l’alba. In quel momento regna un silenzio irreale e lo spettacolo a cui assistiamo ci toglie ogni volta il fiato. È una sorta di preghiera laica, un ringraziamento. Questo è l’unico momento della giornata tutto per noi, perché gli ospiti stanno ancora dormendo. Mi è sempre piaciuto assistere all’inizio di un nuovo giorno, ho la sensazione che tutto sia possibile e non vedo l’ora di vivere nuove avventure.
Per un alpinista come te non è frustrante servire i clienti invece di andare in giro per le montagne?
Un po’ sì. Ma comunque, nonostante l’impegno estivo del rifugio, qui vicino negli ultimi anni sono riuscito ad aprire una trentina di nuove vie. Con vari compagni abbiamo anche alzato il grado delle difficoltà perché, come sai, i vecchi alpinisti, ad esempio Bruno Detassis, andavano sul facile nel difficile mentre noi, grazie ai materiali e all’allenamento specifico, passiamo anche su pareti aperte e più difficili. Ma per una forma di rispetto, senza mai andare ad incrociare le vie di chi ci ha preceduto.
E adesso, quando scenderai a valle dopo i lavori di ristrutturazione, dove andrai?
Credo in Himalaya, allo Shisha Pangma.
Vittorino Mason