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12 Febbraio 2016

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Scalate, ricordi e promesse mantenute nel bacino del Freboudze

“Non esistono proprie montagne, si sa, esistono però proprie esperienze. Sulle montagne possono salirci molti altri, ma nessuno potrà mai invadere le esperienze che sono e rimangono nostre”
Walter Bonatti, Montagne di una vita, 1995

Ci sono angoli del Monte Bianco che ho amato fin dall’infanzia. Non c’è un motivo particolare se non lo spirito evocativo che certi luoghi di roccia e di ghiaccio riescono a determinare nella complessa psiche dell’individuo. Così, credo d’aver amato il modesto Mont Chetif ancor più del tormentato versante della Brenva del Monte Bianco, le cui rocce dirimpettaie alla finestra di casa mia a Courmayeur stimolavano fantasie “arrampicatorie” ancora dormienti. Avevo per esempio stretto un legame con le bianche rocce gessose della Val Veny, le cui pareti franose m’incuriosivano ancor di più che il poderoso versante di Peutery. Versa la fine degli anni sessanta, a casa nostra venivano spesso Walter Bonatti e Cosimo Zappelli. Bonatti, che aveva lasciato l’alpinismo dopo la via nuova in solitaria lungo la parete nord del Cervino, era solito acquistare nel nostro negozio in Strada Regionale cioccolato amaro fondente e quadretti di zucchero. Intrapresa la nuova avventura di esploratore e d’inviato della rivista “Epoca”, non mancava mai di farci arrivare una cartolina dalle terre lontane che visitava. Zappelli, invece, era ormai una guida famosa oltre che un soccorritore esperto. Ricordo, alcune sere, i racconti di scalate e di salvataggi sul Monte Bianco con quei due protagonisti dell’alpinismo, mentre mio zio apriva una buona bottiglia di cognac. Zappelli, alla fine degli anni settanta, sarà il mio primo maestro d’alpinismo in un corso organizzato dalla Compagnia delle Guide di Courmayeur. Nelle mie scorribande infantili c’era in ogni caso una montagna che più di tutte le altre stimolava la mia fantasia. Spuntava in sordina dal bacino di Frebouge quando, presso Lavachey in Val Ferret, andavo a “giocare” sui primi sassi all’età di quattro anni. Salendo su quei facili blocchi rocciosi guardavo verso l’alto e sognavo così d’aver percorso un pezzetto di quelle montagne che mi parevano irraggiungibili, e tra queste vi era il Petit Mont Greuvetta. Nella maturità ho percorso decine di vie nel gruppo del Monte Bianco, difficili e famose, altre meno note ma non per questo meno fascinose o di poca soddisfazione. Anche il bacino del Frebouge dal punto di vista dell’arrampicata non ha smesso di esercitare un fascino su di me, seppur in modo piuttosto tardivo rispetto ad altri settori del Monte Bianco che ho “battuto” maggiormente negli ultimi vent’anni. Dopo una veloce salita all’Aiguille de Leschaux nel 1988, l’occasione di tornare in quel piccolo angolo al cospetto delle Grandes Jorasses mi è stata offerta nel nuovo millennio. Impegnato a completare la mia conoscenza del massiccio in vista dell’ammissione al GHM di Chamonix, ripetevo la via Bonatti –Mazeaud alle Petit Jorasses, rimanendo nuovamente colpito dal gruppo del Greuvetta. L’estate successiva, in mancanza di soci per una puntata al M.Greuvetta, con l’amico Renato Rivelli salivo una via molto particolare sullo zoccolo che sostiene il ghiacciaio del Frebouge, lungo lisce placche testimoni della potenza erosiva dell’antico apparato glaciale, ora ritiratosi in un circo più alto. In quell’occasione la mia attenzione si rivolse nuovamente al dirimpettaio Petit Mont Greuvetta 3221 m e alle sue belle placche meridionali. Questa montagna, nota anche come Punta Bosio, costituisce una specie di contrafforte della cresta sud-sudest del più alto e robusto M.Greuvetta 3679 m (dove nel 1971 cadde il socio venariese Paolo Armando). La cima fu raggiunta per la prima volta nell’agosto del 1913 da Ralph Todhunter e Joseph Knubel dal versante sudest ma la “via normale”, tutt’altro che facile, è opera di Ettore Calcagno e Mario Bordone nel 1925. Sulla parete ovest anche la cordata Bonatti-Oggioni lasciò la sua firma nel 1959, superando una bella parete di 650 metri non particolarmente difficile. La mia prima ascensione su questa montagna, nel 1995, avvenne lungo la via “Emery-Barthassat”, un logico capolavoro datato 1975 che supera una stupenda successione di diedri e placche. Ricordo allora una discesa particolarmente complicata con una serie di doppie dalla cresta sud-sudest, in un labirinto di canaloni e cenge. L’anno successivo, l’amico Daniele Caneparo con Ezio Sordello ed Enzo Ciavattini, apriva “Dromi”, la prima via moderna della parete equipaggiata con spit (seppur distanziati) e con difficoltà fino al 6b. Soprattutto, questa linea 3) le belle placche della via Dromi al Petit M.Greuvetta (ph. R.Bensio)offriva una nuova e comodissima possibilità di discesa rapida anche per le via “Emery-Barthassat” e per la vicina e difficile “British Route”! La possibilità di avere delle doppie interamente attrezzate, inoltre, rendeva di fatto fruibile questo versante anche in giornata. Mi proposi di ritornare a ripeterla ma, da allora, sono passati vent’anni e il mio interesse si è rivolto ad altre zone del massiccio oppure a progetti sulle Alpi Graie Meridionali. Quest’anno, approfittando di una bella estate e di un po’ di giorni a disposizione, ho quindi fatto base a Courmayeur in vista di alcune salite all’Aiguille de Blaitiére e nel Triolet. Una telefonata veloce in un giorno di “pausa” e l’amico Roberto, già compagno nella salita alle Petit Jorasses, si è precipitato da Savona in giornata! E sempre nella giornata siamo finalmente riusciti a ripetere “Dromi” al Petit Mont Greuvetta, con l’impegno ti tornare l’anno prossimo per salire anche la difficile “Creswell-Penning”. Il giorno seguente, al Mont Vert de Greuvetta 2873 m di comodo accesso dal Bivacco Gianni Comino collocato nel 1981, ripetevo con la mia compagna la “Via del Carletto”: nove lunghezze su roccia molto bella e con ottimo panorama sul bacino del Triolet. Sceso a Lavachey mi sono fermato ai “miei sassi” della Val Ferret dove in qualche modo ha avuto inizio la mia avventura verticale. Il pensiero è corso nuovamente indietro nel tempo, alle prime arrampicate, alle lunghe passeggiate pomeridiane al cospetto delle Grandes Jorasses, al salotto di casa nostra con mio zio, Bonatti, Zappelli e il dottor Bassi impegnati in conviviali chiacchierate. Chissà quali eventi, persone, luoghi, segnano e tracciano in qualche modo la via di un individuo. La mia, di certo, ha origine nella Courmayeur degli anni sessanta e all’ombra di queste montagne.