“E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo”.
(Leonardo da Vinci)
Sono passati solo pochi giorni dal sole e dalla pietra della Corsica. Un condensato di “elementi dell’origine”, acqua e roccia, che non si scordano facilmente. Tuttavia ho voglia di “montagne di casa” in attesa di qualche progetto estivo un po’ ambizioso, e questa volta da solo. Non sono un fautore dell’alpinismo solitario anche se in passato ho vissuto delle bellissime e importanti esperienze in tal senso, nell’Adamello, nel gruppo del Monte Bianco e soprattutto qui, sulle Alpi Graie meridionali. Anche in arrampicata negli anni scorsi ho ritrovato il piacere del free-solo, ovviamente compatibilmente alle mie attuali possibilità ed all’età che inizia a far prevalere un notevole spirito di conservazione. Oggi però non m’interessa la difficoltà, né la performance.
Voglio piuttosto ripercorrere degli itinerari classici su montagne a me ben note, per assaporare appieno quel “sentimento della meta” di cui tanto mi sono occupato ultimamente.
Salgo così al bivacco Fassero-Soardi nel vallone di Sea. Tra queste pareti sono veramente a casa e non mi coglie affatto l’ansia che caratterizza la vigilia delle salite in solitaria, seppur “facili”. La sera, il sonno mi coglie nel bivacco deserto mentre sto appuntando sul taccuino alcuni pensieri. Ma il riposo è breve, la strada è lunga e il fisico non è certo più quello di vent’anni fa. Alle 3 lascio la confortevole capanna di legno che ricorda, oltre all’ugetino Nino Soardi, l’amico Marco Fassero caduto sulla Cresta di Mezzenile nel 1989.
Alla luce della lampada frontale non è un problema scendere verso il fondo nevoso del vallone: conosco bene questi luoghi e potrei orientarmi in qualsiasi condizione. La neve è ancora parecchia ed il rigelo non c’è stato, tuttavia è abbastanza trasformata, almeno quel tanto da rendere indispensabili i ramponi fin da subito. Risalgo il fianco della seraccata del Ghiacciaio Tonini senza problemi, così come il plateau superiore con i crepacci ancora praticamente tutti chiusi.
Il cielo è stellato e la mattinata si preannuncia buona. So che non durerà a lungo e nel pomeriggio il classico temporale delle Valli di Lanzo sarà un fatto quasi assicurato.
Con la crepaccia terminale chiusa l’approccio al pendio è agevole. Sto bene e sono euforico e per un attimo sono tentato di portarmi al centro della parete per seguire la via che in alto percorre ciò che resta del seracco. Ma le temperature elevate e l’incognita sulla mia attuale “autonomia” mi inducono prudentemente ad accontentarmi della più facile e corta via Fava-Danesi. Salgo rapidamente ed alle 7 e 30 esco sul pendio di raccordo della cresta ovest. Il cielo è sereno, ma qualche nuvola di troppo già s’affaccia a chiudere il fondovalle. L’idea sarebbe stata quella di salire in vetta e scendere per la cresta est ma il pericolo delle cornici con le temperature così in aumento non è da sottovalutare. Inoltre ho l’intenzione di traversare al Rifugio Daviso passando per il Colle delle Lose, e la cosa rischia di farsi lunga oltreché faticosa.
Decido allora di scendere al colle ovest della Ciamarella, quello che chiamiamo Colle di Saint Robert: è molto ripido ma con un paio di doppie permette di scendere direttamente sul versante nord e riguadagnare il ghiacciaio. Non trovando la seconda doppia che sapevo essere a destra, a metà del canale ne attrezzo una nuova su una solida clessidra, ed eccomi così di nuovo alla base.
Mi viene in mente quando, qui in Sea, in occasione di una campagna lancio dei nuovi zaini Ferrino nei primi anni ’90, Messner mi raccontò di aver salito più volte in giornata una “paretina” (la Ciamarella) scendendo ogni volta da questo colle. Il tutto avvenne in un tour d’allenamento sulle Alpi occidentali prima di partire per l’Annapurna. Sorrido, pensando che io invece sono già un po’ stanco e che le mie velleità giornaliere non sono che a metà.
Ridiscendo il vallone e mi dirigo verso la Piatou per mettermi in direzione del Passo delle Lose. Alle 11 il sole è ormai alto e fa sentire i suoi effetti, tant’è che a metà del vallone inizio a sprofondare pericolosamente in mezzo a grandi buchi che si aprono sotto il manto che ricopre le pietraie. Il mio “sentimento della meta” cede ancora una volta al buon senso, pensando al fatto che, anche sul versante della Gura, la molta neve e le temperature in crescita mi renderanno delle modeste difficoltà un vero problema. Ritorno dunque sui miei passi e decido di rientrare a Forno Alpi Graie. Nelle ore centrali la nebbia in alto è ormai arrivata.
Mi metto dunque il cuore in pace e penso alla faticosa anche se “innocua” risalita che dal paese mi porterà con altri 1000 metri di dislivello al Rifugio Daviso, a quota 2280. Ci arrivo alle 17, bene accolto dai gestori di turno del Cai di Venaria Graziano e Gianni. Mi sistemo nel locale invernale ancora da solo (al rifugio non c’è nessuno) e dormo di filata fino all’ora della cena. Il pasto mi rinfranca alquanto, così come la sera che trascorre veloce chiacchierando con gli amici gestori. Il giorno seguente, se avessi recuperato le forze, l’intenzione sarebbe stata quella di ripetere in solitaria la “Via Grassi” alla Punta Clavarino, una bella scalata classica con una lunghezza di V+. Date le buoni condizioni dei canali nevosi nell’intero gruppo, opto però per un altro progetto: collegare il canale est del Colle Martellot al couloir nordest del Dôme Blanc du Mulinet.
L’idea di lasciare chiodi e friend al rifugio peraltro non mi dispiace affatto.
Alle 5 sono di nuovo in pista, la neve è abbastanza dura e i miei polpacci hanno recuperato a sufficienza.
Il canale del Colle Martellot non è molto ripido, ma è reso insidioso dal costante rischio di caduta sassi. Sono nella strettoia ormai irradiata dal sole quando sento il tonfo sordo di alcuni massi che si schiantano in qualche braccio laterale; esco allora rapidamente dalla rigola e mi porto al riparo sotto alcune rocce. Ma lungo il canale non cade nulla.
Il couloir nordest del Dôme è invece un budello decisamente più ripido dove però la neve si comporta, nella contropendenza di sinistra, come un versante nord; dunque la salita è sicura e veloce. Nel tratto finale guardo in basso e rammento che di qui è passato un anno fa Andrea Bormida con gli sci!
Esco dalla neve e affronto la paretina di rocce rotte del dente sommitale con i ramponi nei piedi. Un vero spasso! In discesa, infatti, mi ancoro all’unico sperone di roccia buona e butto giù una breve corda doppia.
Un breve sguardo all’uscita dallo sperone Girardi che abbiamo percorso in prima salita nel 2002 con gli amici del Gruppo Alpinistico del Cai di Venaria Reale, poi ridiscendo “spicozzando” fino al canale nord. Di qui una tranquilla dorsale glacio-nevosa mi porta all’anticima est della Punta Clavarino: vi si erge un grosso ometto di pietre che segnala l’uscita delle vie del versante est, tra cui la “Via Grassi” e la mia “diretta alle placche est”.
La nebbia sta salendo, immancabile come sempre, fatto per cui evito anche questa volta la salita in vetta. Chissà cosa penserebbe l’amico Spiro con il suo “sentimento della vetta”.
Raggiunto il Glacier des Sources de l’Arc sono tentato di scendere sul lato italiano dalla ripida “Talancia”, tristemente nota per i numerosi incidenti occorsi ad alpinisti troppo “leggeri”. Una leggenda da taverna, forse maturata fra i fumi della pipa e dell’alcool e narrata da mio nonno, asseriva che “Mentu” Girardi vi avesse fatto passare addirittura una mucca gradinando con la piccozza!
Non scelgo la rapida discesa verso il rifugio lungo la “Talancia” ma continuo sui duri e poco ripidi pendii della Punta Girard, la cui cima, a 3265 metri, raggiungo abbastanza rapidamente.
Oggi fiato e gambe vanno benissimo e la stanchezza di ieri sembra solo un ricordo.
Il libro di vetta è ridotto a pochi fogli sgualciti senza una penna per potervi scrivere alcune impressioni della conclusione di questa seconda giornata di cavalcate solitarie. Lascio allora un biglietto da visita nel barattolo, come era consuetudine degli alpinisti inglesi nella seconda metà dell’800.
Guardando sul versante sud individuo una possibilità di discesa inconsueta per questa stagione: un nastro di neve dura ripido e diretto, che scende per circa trecento metri fino alla base della Talancia. «Con un po’ di attenzione si può fare», penso, e fronte a monte inizio una rapida discesa su una neve inaspettatamente dura. Al fondo, i modesti pendii di 30° mi segnalano che questa giornata visionaria è davvero finita, almeno dal punto di vista alpinistico.
Su una roccia affiorante mi godo il mio “ sentimento della meta” e gli ultimi momenti di silenziosa solitudine. Poco prima di arrivare al rifugio Daviso, infatti, individuo già le figure di Renato e Flavio, che con altri amici del Cai di Cuorgnè sono saliti per l’ascensione commemorativa per i 150’anni del Cai che ci attende domani. Ben presto, allora, diviene tutto un vociare, di saluti, di impressioni e di domande. La cosa non mi dispiace dopo tante ore di relativa solitudine.
L’intenzione del gruppo sarebbe quella di percorrere la lunga cresta est della Cima di Monfret, scendere dalla cresta ovest, risalire alle Cime di Piatou e scendere dal vallone di Sea. La grande incognita è però ancora una volta la nebbia, dunque tutti quanti sono d’accordo di ripiegare sul più comodo anello che comprende le due creste della Punta Girard.
In disparte, silenziosamente e sentitamente ringrazio!
L’indomani salendo la ripida Talancia Girard devo contenere la potenza di gambe della forte Giulia che quest’anno ha fame di salite, così come quelle di Andrea, veramente in forma. Non mi superano solo perché mi hanno nominato sul campo “capogita”.
In silenzio, penosamente e sommessamente ringrazio. Alle 9,35 sono di nuovo in vetta, questa volta con un gruppetto di amici.
Ci aspetta, infine, un’agevole discesa verso il Passo dell’Arc e poi una corda doppia lungo il versante est del malagevole passo. Ma è storia fatta.
Questa volta il “sentimento” è per una meta giù in valle, a casa, dove Silvia mi aspetta per una cena coi fiocchi. Il bello del salire e dello scendere in fondo sta tutto qui: ascendiamo verso una meta per conoscere qualcosa in più di noi stessi ma scendiamo con altrettanto piacere per ritrovare ed apprezzare tutto ciò che abbiamo lasciato. Come Ulisse torneremo all’agognata Itaca ma poi, il desiderio, sarà solo quello di ripartire di nuovo.