Una cima che ti aspetta imperturbabile dall’alto dei suoi 8.126 metri, alla fine di uno scivolo di ghiaccio sospeso sul vuoto, con temperature a -30/-40 °C mentre l’aria che respiri è sempre più sottile, di un’inconsistenza sempre più insufficiente per darti quella vita, quelle residue energie necessarie per lo sforzo estremo.
Uno sforzo che è l’ultimo di una serie di atti di volontà protratti per oltre 80 giorni al freddo, al cospetto di tormente di vento e neve, in attesa di quella pausa – “finestra”, la definiscono i meteorologi – di tempo bello che consenta a quattro piccoli/grandi esseri umani non solo di arrampicarsi fin lassù, ma anche e soprattutto di scendere, di ritornare per raccontarci che ce l’hanno fatta, che ci hanno creduto fino in fondo e che la cima de Nanga Parbat, d’inverno, si può raggiungere davvero.
Se – come in molti dicono – l’alpinismo eroico e dell’”inutile” è morto, ditemi che cosa è questo. Ed anche se Reinhold Messner per la Gazzetta scrive che questa prima invernale è una grande impresa pur non potendosi definire storica, motivando tecnicamente la sua affermazione (potete leggerlo qui), Simone Moro entra di diritto nella storia dell’alpinismo come il primo uomo – e unico rimarrà, per forza di cose – a segnare quattro prime invernali.
Un record conquistato con la forza della normalità, una forza che è alla portata di ogni uomo ma al tempo stesso è straordinaria per la coerenza con cui Simone ha saputo coltivarla ed esprimerla: capacità logistiche, attenta preparazione, grande motivazione mentale sempre alimentata da un atteggiamento positivo e costruttivo, consapevole utilizzo della comunicazione e della propria immagine, grande attenzione alla squadra basata sulla fiducia nei propri compagni e nella forza del gruppo.
Simone Moro – e le sue quattro imprese – è tutto questo e qualcosa in più: quella scintilla di follia che solo un cuore umano può intuire e fare sua, rendendo possibili e “normali” anche le imprese più straordinarie.
Andrea Bianchi – MountainBlog.it