Si parlò a lungo, specie a Milano e dintorni, dell’impresa ladresca perpetrata nel settembre del 1911 a danno dei musei del Castello Sforzesco. Ne siamo venuti a conoscenza “studiando” le virtù, non solo arrampicatorie, di Arturo Andreoletti (1882-1976), ottimo alpinista Accademico del Cai, pioniere e arrampicatore audace nelle Grigne, sulle Pale di San Martino, in Marmolada, sulle Dolomiti Agordine, nelle Alpi Centrali, ecc…
Successe che alcuni furfanti matricolati riuscirono durante la giornata a raggiungere inosservati la merlatura dell’edificio e poi, attesa l’oscurità, a calarsi da un’altezza di 10-12 metri fino alle sale del museo. Ma come si calarono? Con un mezzo curioso che i giornali di allora descrissero trattarsi di un semplice pezzo di legno piuttosto robusto, bucato da capo a capo, nel quale passava uno “spago” di due millimetri e mezzo, allora detto comunemente straforzino; il compito di quel legno era di rendere lenta e sicura la discesa sulla corda esilissima, ma assai robusta.
Nessuno certamente pensò allora che quell’ apparecchio, rozzo ed elementare, potesse rendere qualche servizio anche agli alpinisti; invece, dopo qualche prova compiuta in una palestra, più per curiosità che per altro, lo strumento, accuratamente studiato ed opportunamente modificato, andò a finire, sullo scorcio della campagna alpinistica del 1911, nel bagaglio del noto alpinista di cui sopra. Servì a rendere possibile qualche discesa in roccia che, diversamente, non sarebbe stata realizzabile con l’uso normale della corda.
I disegni che accompagnano queste note dimostrano chiaramente come si poteva usare quel nuovo apparecchio. Risulta composto di una semplice fune, relativamente sottile (5 millimetri) e di un pezzo di legno compatto e non fibroso lungo circa 20 centimetri, con spessore minino di 3 millimetri e mezzo, forato in senso longitudinale. Gli esperimenti fatti in palestra con uno spago di millimetri 2,5 permisero ad una persona di 90 chili di eseguire 8 volte di seguito la discesa nel vuoto di 12 metri, senza che il cavo si strappasse o si logorasse visibilmente. Non è dato sapere come si comportò la cordicella durante la nona discesa! Tutti gli spigoli del legno erano naturalmente smussati. Qualcuno usò il legno di noce che ha il vantaggio di risentire poco del calore prodotto dallo sfregamento esercitato dalla cordicella.
S’infilava uno dei capi della corda nella foratura e l’altro nella stessa foratura, ma in senso opposto. Le due parti della corda dovevano essere trattenute da chi usava l’apparecchio e lasciati scorrere in una mano in modo da regolare la velocità della discesa, ciò che si otteneva senza sforzo ed in modo facile. Per evitare escoriazioni e riscaldamento eccessivo della pelle, si trovò conveniente di rinchiudere le corde in una specie di manicotto di cuoio di 20 centimetri circa di lunghezza.
Quando l’individuo che scendeva si era seduto sul pezzo di legno, si veniva a costituire un notevole attrito fra le due parti della corda – che scorrevano in senso inverso – ed il prisma in cui erano imprigionate. Si ha in tal modo un’azione paragonabile a quella di un “freno a nastro”, in cui l’intensità della pressione è data dal peso della persona e dalla tensione esercitata sulle due parti della fune.
Un altro manicotto di cuoio serviva a rendere più sicura la corda da eventuali tagli e da rotture nel punto in cui veniva ancorata alla roccia. A discesa effettuata si poteva ricuperarla facendo un nodo ad una estre¬mità della corda, tirando a sé l’altra.
I vantaggi ? Minimo costo, minimo peso, minimo volume; tutte caratteristiche assai vantaggiose per un alpinista! Aggeggio che si portava nel sacco come uno strumento di riserva anche se non si sapeva preventivamente di usarlo. Serviva anche ad agevolare la discesa di qualche compagno non perfettamente sicuro sulla corda libera, senza contare che la cordicella poteva servire benissimo da comune corda di soccorso, o “come corda supplementare”, come era indicato in ogni manuale del tempo.
L’impressione che si provava la prima volta nell’affidarsi ai quei due sottili cavi di canapa da 5 millimetri non doveva essere delle migliori; ma come succede per tutte le cose nuove ed ardite, qualcuno ci fece presto l’abitudine, apprezzandone il valore. Bisognava naturalmente avere l’avvertenza di assicurarsi che la corda fosse sempre in ottimo stato (la spesa del cambio della funicella era di poco conto) e, all’atto pratico, che essa non fosse logorata da qualche spigolo di roccia tagliente.
La ricerca termina con la nota che, subito dopo, fu presentato un nuovo modello di questo discensore, ma da usarsi con corde ordinarie di 10-14 millimetri; ciò presentava un pregio dal lato sicurezza, ma il suo peso era decisamente maggiore e non trascurabile.
La nota termina con un auspicio: “Si attende l’esito delle prove pratiche prima di giudicarlo definitivamente”.