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19 Aprile 2015

Senza categoria

Una fragile via verso la meta

“Ci sono quattro strade che possono portarti dove vuoi andare. La prima ti conduce dove ti manda il tuo pensiero. Non è la strada giusta. Rifletti un poco. Affronti allora la seconda. Rifletti nuovamente ma non scegli ancora. Finalmente, alla quarta riflessione tu sarai sulla strada giusta. Così non rischierai più nulla. qualche volta, lascia passare una giornata per risolvere il tuo problema”.

Diablo, apache della Montagna Bianca

IMG_0023«Ciao Matte! Avrei un progetto. Guarda, però, che non si tratta della solita ripetizione di una via famosa. Al contrario. Si tenterebbe una prima ripetizione». Esordisco così nella mia telefonata con Matteo, dopo aver scartabellato l’elenco di soci possibili per questa salita che pare essere stata condannata all’oblio fin dal giorno della sua prima realizzazione: il 1971. La montagna è a me ben nota, perché credo di averne percorso quasi tutte le vie di salita. Sto parlando dell’Uja di Ciamarella 3676 metri, la “regina delle Valli di Lanzo”, il cui canalone e sperone est-nordest furono scalati dall’amico accademico e guida alpina “Tom” Balmamion, in cordata con Bruno China. Si tratta di una parete pericolosa, un gigantesco imbuto di friabili calcescisti alternati a più solide pietre verdi nella parte finale. Poche sono le possibilità di chiodatura, numerosi i tratti di misto malagevole e nessuna possibilità di ritirata. E’ questa la via che fa il caso dell’ardimentoso Matteo, con cui ho già costituito una cordata collaudata in alcune ascensioni impegnative e in un paio di “prime”. Partenza alle ore 4 e 30 dai 1850 metri di Pian della Mussa, per sentirci un po’ come i pionieri Rey e Castagneri che superarono il versante sud dalle “Lance” nel 1883. La salita per i prati erbosi che contornano il canalone della valanga nera è molto ripida, alternando cenge esposte e inclinate a fasce rocciose molto friabili. Doppiamo lo sperone sudest, dove sale l’infida via Bianco-Manolino (anch’essa irripetuta) e iniziamo la risalita del severo canalone est. E’ questo un ripidissimo imbuto di rocce malferme, un collettore naturale di tutto ciò che precipita dagli ottocento metri della parete superiore. Il fondo, nevoso, è inciso da una rigola profondissima ed è disseminato di paurosi massi in bilico. Qui è sicuramente finito dopo un volo di centinaia di metri lo zaino dell’amico Balmamion, accidentalmente caduto dopo una sosta poco sotto la cima. La neve dura e compatta ci permette una progressione rapida, ma già il sole sta irradiando questo pericoloso versante liberando le rocce tenere dal quel prezioso collante che è il gelo d’altitudine. Ce ne accorgiamo perché qualche detrito, per fortuna di piccole dimensioni, saltella rimbalzando dalla bastionata superiore per finire convogliato nell’imbuto nevoso appena percorso. Attacchiamo una pera di roccia incoerente e verticale con tre lunghezze, dove non si riesce a mettere nemmeno una protezione. Mi viene in mente, allora, un racconto di Gian Carlo Grassi, che salendo una variante della via Rey- Castagneri utilizzò delle grosse lame di ferro piantate a guisa di picchetto nel brecciolino terroso dei canaloni. Ce ne vorrebbero almeno un paio oggi! In cima alla “pera”, traversiamo a destra e ci portiamo alla base di uno dei tratti obbligati della parete: un camino semighiacciato che è già divenuto, visto l’irradiamento solare superiore, una vera e propria cascata d’acqua. Rimettiamo i ramponi e ogni capo impermeabile di cui disponiamo. M’impegno quindi nell’ingresso del camino, con il piede destro che rampona una candela di ghiaccio e il sinistro piantato nella parete terrosa. Il tutto sotto una doccia gelata. Lotto una decina di metri per uscire su un pericoloso blocco incastrato di prasinite, probabilmente precipitato dall’altro. Vi striscio all’interno e continuo in spaccata su terreno “misto”: ghiaccio, terra, brecciolino, scagliette di roccia, riuscendo addirittura a piantare un chiodo “morale”. Trovo infine un buon posto di fermata su un terrazzino, dove utilizzo una clessidra abbastanza solida. In due lunghezze siamo fuori dal camino-cascata, bagnati ma indenni. Il proseguimento è sbarrato da una parete strapiombante insuperabile e l’unica possibilità è a destra. Matteo traversa su una cornice esile e supera il tratto alto della cascata su una placca ghiacciata che si apre a ragnatela a ogni colpo di rampone inferto. Poi s’infila in un vago diedro strapiombante a sinistra, dove occorre tirarsi a forza di braccia su una roccia che non è neppure degna di tal nome. Con leggerezza e abilità ne esce, superando ancora una delicata strozzatura al termine di un diedro, coperta di verglas. Quando passo io noto che alla base di questo ha addirittura eretto un ometto! Come se potesse servire a qualcuno venuto a ripetere l’itinerario dopo di noi! Finalmente siamo su un terrazzo abbastanza largo, dove si respira un po’. Mi tolgo la giacca impermeabile e il casco, le cui imbottiture impregnate d’acqua mi stanno congelando le tempie. Ed è qui che, dopo averlo poggiato a terra, maldestramente lo urto con la corda che sto riavvolgendo, facendolo rotolare giù dalla parete. Il tutto in onore alla prima salita e allo zaino precipitato, cui andrà certamente a tenere compagnia, laggiù da qualche parte. Ora è un bel problema: sotto questo gigantesco ammasso di rocce friabili e senza alcuna protezione in testa! Riprendo velocemente a salire un breve diedro dove trovo un chiodo della prima ascensione, rotto, uscendo su un esile terrazzino inclinato. Sono giunto nel cuore della parete, nel punto chiave; diritti è impossibile proseguire, mentre a destra si presenta un pauroso traverso verticale su lame sporgenti friabili, con un vuoto di circa 700 metri al di sotto. DSCN5491Ovviamente il tutto non è proteggibile. Recupero Matteo lungo i dieci metri appena percorsi allestendo una provvidenziale sosta su un chiodo ad anello da ghiaccio (!) trovato piantato più nella terra che nella roccia. Mi accorgo però, che qui la parete inizia a cambiare litotipo: i friabilissimi calcescisti si alternano a più solide ma lichenate prasiniti. Parto proteggendomi abbastanza bene con un friend e un nut, mentre i miei scarponi vanno alla ricerca della roccia giusta. Quando poggio il piede su una “pietra verde”, riesco a trasportarvi il mio peso, quando è una lastra di calcescisto a essere caricata, una frana si mette in moto sotto le mie calzature tanto che devo sperare di potermi aggrappare di peso a qualche appiglio solido. Finalmente raggiungo una bella placca grigiastra provando un certo sollievo, che ben presto si esaurisce scoprendo quanto sia liscia per i miei scarponi rigidi. Trovo due chiodi ormai corrosi e ne pianto un terzo in uscita, dove un “semplice” V+ mette a dura prova le mie mescole “Vibram”. A Matteo tocca un difficile traverso di misto per imboccare un canale di ghiaccio sospeso nel vuoto. Per un attimo, nel superare il gradino strapiombante, perde i piedi rimanendo appeso solo alla piccozza! Lo sperone triangolare finale è molto esposto, ma di roccia solida, quasi a picco sul sottostante ghiacciaio dell’Albaron di Sea. Dopo dieci ore di scalata siamo in vetta, avendo superato questo “mini – Eiger” delle nostre Alpi Graie Meridionali. La discesa che ci attende per la via normale è lunga e noiosa, ma priva di qualsiasi difficoltà. Alle 18,30 siamo già al Bar Bricco “delle guide” a decantare euforicamente la nostra ripetizione al cospetto di una bottiglia di vino. Mentre lasciamo il Pian della Mussa, lo sguardo volge ancora verso l’irripetuto sperone sudest. Un altro piccolo sogno? Chissà!